DIPENDE DA COSA? DA TUTTO E DA NIENTE
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- 18 lug
- Tempo di lettura: 4 min
Quante volte ci è capitato di porre una domanda aspettandoci una risposta chiara, definitiva, magari perfino rassicurante, e invece riceviamo un semplice (e per certi versi frustrante) “dipende”?
È una risposta che spesso ci spiazza. Non perché sia scorretta, ma perché va contro la nostra esigenza di semplicità, di ordine, di certezze. Siamo abituati a pensare in termini binari: giusto o sbagliato, bianco o nero, sì o no. E invece la realtà — quella vera, complessa, quotidiana — raramente si lascia incasellare in categorie così nette.
La verità è che il bianco e il nero puri esistono raramente.
La maggior parte delle volte, ciò che incontriamo nella vita sono sfumature: infinite tonalità di grigio (e no, non quelle di certi romanzi famosi), che riflettono la complessità del mondo in cui viviamo. Un mondo fatto di contesti, punti di vista, situazioni in continua evoluzione. In una parola? Relatività.
Non parliamo qui della teoria di Einstein, ma di qualcosa di altrettanto concreto e, a suo modo, scientifico: il fatto che quasi tutto — dalle nostre idee ai nostri comportamenti — dipende da ciò che ci circonda.
Siamo il frutto di relazioni e contesti
La nostra identità, i nostri gusti, le nostre convinzioni, non si sviluppano nel vuoto. Non siamo monoliti fissi e definiti una volta per tutte. Al contrario, siamo esseri sociali e relazionali, influenzati in modo costante e profondo dall’ambiente, dalla cultura, dall’educazione, dalle persone che incontriamo.
Non ci comportiamo allo stesso modo con tutti: pensate a come vi esprimete con un amico rispetto a un collega, o a come cambiate atteggiamento in famiglia, sul lavoro, in viaggio, in una nuova città. Non è incoerenza: è adattamento, ed è una forma di intelligenza. La nostra personalità si modella nel tempo proprio perché entra continuamente in relazione con nuove situazioni, stimoli, esperienze.
Anche i gusti non sono universali
Prendiamo un esempio banale, ma rivelatore: il cibo.
Per un italiano, mettere la panna nella carbonara può sembrare un sacrilegio culinario. Per qualcuno in America, invece, è un’aggiunta del tutto normale. Stesso discorso per l’ananas sulla pizza, per il caffè filtrato, per il concetto stesso di “pasta al dente”.
Chi ha ragione? Nessuno, o meglio: dipende. Dipende dalla cultura gastronomica, dalle abitudini, dall’educazione al gusto, perfino dalle condizioni economiche e geografiche.
E allora viene da chiedersi: perché ci ostiniamo a difendere ciò che conosciamo come se fosse l’unica verità possibile? I nostri gusti — estetici, alimentari, musicali, morali — non sono verità assolute. Sono costruzioni. E, come tali, possono cambiare, evolversi, adattarsi.
Il concetto di bene e male non è scolpito nella pietra
Se allarghiamo lo sguardo, ci accorgiamo che persino concetti fondamentali come bene e male sono, in gran parte, frutto di convenzioni culturali. In alcune società, un determinato comportamento è considerato accettabile, se non addirittura virtuoso; in altre, può essere condannato.
Non significa che tutto sia relativo e che non esistano valori condivisibili, ma ci invita a riflettere su quanto le nostre idee morali siano radicate in un contesto specifico.
Chi ha stabilito, ad esempio, che una certa azione è “scorretta” e un’altra “giusta”? In molti casi, si tratta di norme sociali costruite per garantire la convivenza e l’ordine. Utili, necessarie, certo. Ma comunque storicamente e culturalmente determinate. Non sono leggi immutabili della natura.
Eppure, nonostante questa complessità sia evidente, tendiamo ancora a pensare che sia necessario “prendere posizione”, “dire la propria”, “essere coerenti”.
Spesso si considera chi cambia idea come insicuro, chi mostra empatia come fragile, chi cerca di capire gli altri come poco autorevole.
Ma forse dovremmo rovesciare questa prospettiva.
Essere empatici richiede forza.
Comprendere il punto di vista altrui, anche quando è distante dal nostro, è una forma di maturità. Riconoscere che le situazioni non sono sempre bianche o nere è segno di intelligenza, non di confusione. Saper dire “non lo so” o “dipende” può essere molto più onesto — e utile — che cercare a tutti i costi una risposta netta.
Un cambio di prospettiva possibile
Se imparassimo davvero a guardare il mondo con occhi più attenti alla complessità, forse potremmo ridurre molti dei conflitti e delle incomprensioni quotidiane.
Nelle relazioni personali, sul lavoro, nella vita pubblica, siamo spesso vittime di fraintendimenti che nascono proprio dalla mancanza di ascolto, di contesto, di apertura.
Questo non significa rinunciare a valori o convinzioni, ma piuttosto imparare a metterli in discussione quando necessario, a contestualizzarli, a riconoscere che non esiste un unico modo giusto di vedere le cose. Ogni persona ha una storia, un vissuto, una sensibilità. E il mondo è più ricco proprio perché è così vario.
In fondo, il concetto di relatività, per quanto possa sembrare filosofico, è estremamente concreto: ci riguarda ogni giorno, in ogni interazione, in ogni decisione. Riconoscerlo può renderci più consapevoli, più equilibrati, forse anche un po’ più sereni.
E allora, la prossima volta che ci sentiamo rispondere con un “dipende”, proviamo a non innervosirci. Magari è l’occasione giusta per fermarci, fare una domanda in più, e aprirci a una prospettiva che non avevamo ancora considerato.
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