LE PAROLE TOSSICHE A LAVORO: LINGUAGGIO DA RIVEDERE, SOFT SKILLS DA RICOSTRUIRE
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“Siamo una grande famiglia!”
“Serve più flessibilità.”
“Qui si lavora per passione!”
Sembrano frasi motivazionali, eppure... qualcosa stona. Se lavori nelle risorse umane, nella comunicazione o ti occupi di cultura organizzativa, è probabile che tu le abbia sentite (o persino usate!) con le migliori intenzioni. Ma sei proprio sicuro che chi ascolta le stia interpretando nel modo giusto?
In molti luoghi di lavoro, il linguaggio è pieno di frasi fatte che suonano bene ma, alla lunga, possono diventare tossiche. Non perché offensive o volgari, ma perché ambigue, fuorvianti o disallineate dalla realtà.
Parliamo oggi di una piccola rivoluzione silenziosa: ripulire il nostro vocabolario aziendale per renderlo più autentico, chiaro e umano.
Perché certe parole diventano tossiche?
Il linguaggio costruisce la cultura.
Non è solo un modo per comunicare, ma il riflesso di ciò che un'organizzazione è, pensa e valorizza. Quando un termine viene usato in modo ripetitivo, generico o decorativo, rischia di svuotarsi di significato e generare confusione.
Ad esempio: “flessibilità” può voler dire tutto e niente.Per l’azienda, potrebbe indicare libertà di orario e autonomia.Per il dipendente, può tradursi in reperibilità continua e orari sfumati.E così, una parola pensata per attrarre finisce per destabilizzare.
Questo accade con molte espressioni: da “spirito imprenditoriale” a “mentalità dinamica”, da “ninja del marketing” a “ambiente giovane”.
Il rischio?
Creare una cultura del non detto, dove si mascherano disorganizzazione, precarietà o sovraccarico dietro formule brillanti ma vuote.
Parole belle, che hanno effetti collaterali
Proviamo a decifrare alcuni classici del gergo aziendale.
Quando diciamo “siamo una famiglia”, vogliamo trasmettere calore, senso di appartenenza, supporto reciproco.
Ma attenzione: una famiglia non ha orari, né confini tra pubblico e privato. Portare questa metafora nel lavoro può implicare aspettative implicite di sacrificio, disponibilità continua o coinvolgimento emotivo fuori scala.
Altra espressione insidiosa: “cultura del risultato”.Bellissima, in teoria. Ma spesso tradotta nella pratica come “lavori finché il risultato non arriva”, ignorando processi, benessere e sostenibilità.
E poi ci sono le descrizioni creative dei ruoli: “problem solver a 360°”, “superstar multitasking”, “ninja della comunicazione”.Sembrano divertenti, ma nascondono mansioni indefinite, carichi multipli e confini di ruolo sfumati. Il che, nel tempo, può generare ansia e frustrazione.
Gli esempi virtuosi di chi ha fatto un passo avanti
Fortunatamente, alcune aziende stanno già cambiando approccio.Prendiamo Heineken, che ha lanciato una campagna di employer branding ironica e onesta, mostrando il “dietro le quinte” delle sue posizioni aperte.
Con messaggi come “Se cerchi un lavoro tranquillo, questo non fa per te”, ha scelto la strada della trasparenza.
Risultato? Più autenticità e meno disallineamento tra aspettative e realtà.
Un altro esempio è Buffer, azienda tech 100% remote. Invece di usare parole generiche, ha definito in modo concreto i suoi valori.
Per loro “trasparenza” significa, ad esempio, rendere pubblici gli stipendi di tutti i dipendenti, compresi i manager. Così facendo, nessuno può interpretarli in modo ambiguo.
Anche Zalando ha avviato dei workshop interni per raccogliere feedback su parole e frasi aziendali percepite come vuote o ambigue.
Il risultato? Un linguaggio più coerente e partecipato, nato dal confronto diretto con chi lavora ogni giorno in azienda.
Come ripulire il linguaggio aziendale (senza diventare noiosi)
La buona notizia è che non serve stravolgere tutto. Serve piuttosto allenare uno sguardo critico e curioso sul modo in cui comunichiamo.
Ecco alcuni suggerimenti concreti:
1. Fai un audit del linguaggio.Rileggi testi, job post, comunicazioni interne. Ci sono parole ripetute? Espressioni che non significano nulla di preciso? Inizia da lì.
2. Coinvolgi le persone.Chiedi direttamente ai team: “Qual è la frase aziendale che ti fa più sorridere (o arrabbiare)?” Le risposte saranno preziosissime per capire dove intervenire.
3. Accompagna le parole con comportamenti.Se dici che “valorizzi il tempo delle persone”, mostra come: pause strutturate, meeting brevi, diritto alla disconnessione. Le parole devono avere le gambe.
4. Forma i manager alla comunicazione consapevole.I leader sono i primi ambasciatori del linguaggio aziendale. Saper comunicare con chiarezza, coerenza e rispetto è una soft skill fondamentale oggi più che mai.
Le parole contano. Sempre.
Cambiare linguaggio non è solo un esercizio di stile. È un gesto culturale potente. Le parole giuste creano fiducia, allineamento, motivazione. Quelle sbagliate — o vuote — generano confusione, malintesi e disillusione.
Scegliere con cura il modo in cui parliamo, scriviamo e raccontiamo il lavoro è il primo passo per costruire un ambiente più sano, autentico e felice. E non serve essere perfetti: basta essere onesti, coerenti e aperti al confronto.
Perché, in fondo, il linguaggio non è solo uno strumento di comunicazione. È un modo per prendersi cura delle persone.
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